Un orrendo mostro disturba la routine domestica di una giovane vedova e del figlio, con la sua ingombrante presenza scura, rifinita da cilindro e cappotto sartoriale. Ha scritto un libro pop-up su di sé e fa un gran casino, ha qualcosa da rivendicare: che sia forse il fatto che la B di LBGT sta per Babadook?
“The Babadook” è un film del 2014 scritto e diretto dall’australiana Jennifer Kent. Per gli appassionati di cinema horror – e per i lettori affezionati della mia rubrichina – il fatto che personaggi e trame tipici del genere tendano a prestarsi all’allegoria non è una novità: è relativamente facile per noi poveri amanti dello spavento capire come un personaggio di un film horror possa diventare una rappresentazione di diversi aspetti della società e della natura umana. Tuttavia ci siamo tutti stupiti non poco quando, ormai nel lontano 2017, Babadook divenne un’icona gay al pari di Ru Paul.

“The Babadook”, J. Kent. 2014
Una madre vedova, Amelia, vive con il figlio Samuel: nella sua libreria trova un albo pop-up dal titolo “The Babadook”. Incerta sulla provenienza del libro ma convinta dell’inappropriatezza del contenuto, cerca di disfarsene senza successo: il libro torna, si presenta sulla porta, le si mette fra i piedi, non importa se gli da fuoco, il libro è sempre lì a canzonarla con filastrocche inquietanti e minacciose : «I’ll wager with you, I’ll make you a bet. The more you deny, the stronger I get» (letteralmente: «Ti sfido, facciamo una scomessa. Più mi neghi, più forte divento»).
Ben presto il mostro non è più solo nel libro, esce dalle pagine e diventa sempre più tangibile, fuori controllo, invade Amelia e mette in pericolo l’equilibrio (e la vita) della sua già fragile famiglia, del suo bambino già provato da una vita a contatto con il dolore fin dalla nascita, uccide il loro cane: un vero mostro che rade al suolo tutte quelle certezze che mantengono i rapporti domestici sulla retta via. Un mostro anonimo, da sempre temuto e allontanato, che cerca una rivendicazione e un posto in cui abitare, con il suo enorme cappello nero e un lungo cappotto sartoriale: suona familiare a qualcuno?

“The Babadook”, J. Kent. 2014
Un mostro, un freak, un personaggio in cerca di legittimazione: una legittimazione che è stata già richiesta da grandi nomi della scena come Frankenstein, solo per citarne uno tra i più noti. Quello che Babadook rivendica è un vero e proprio pride del cattivo: temuto, messo alla gogna sulla base di antiche convinzioni, rifiutato dalla propria famiglia e costretto ad abbandonare il focolare domestico – spesso dopo averlo messo emotivamente a soqquadro – in una di quelle dinamiche purtroppo molto nota alle persone queer, anche oggi e anche qui, nel nostro “primo mondo”. Non è stato difficile per Babadook diventare un’icona LGBT, protagonista di tanti meme e inside joke sui social, fino a finire categorizzato tra i film LGBT nella selezione di Netflix USA.
Qualcuno, e allo stesso tempo qualcosa: l’ingombro emotivo di una presa di coscienza che parte da un angolo della libreria e finisce per possederci, che se lasciata libera di agire potrebbe uccidere il nostro animale domestico. Qualcosa che va dominato o forse, più semplicemente, considerato e curato (l’importante è che non lasciate che uccida il vostro cane per l’amor del cielo!).

“The Babadook”, J. Kent. 2014
Babadook è un’esperienza comune non solo ai membri della comunità LGBT ma anche a tutti coloro che hanno dovuto fare i conti, a un certo punto della propria vita, con un’identità o delle volontà diverse rispetto a quelle che dall’alto dei cieli ci si sarebbe aspettati: non è solo l’identità di genere, l’orientamento sessuale, il fatidico out dal buio dell’armadio, è anche il cambio radicale di direzione, di prospettiva e di ragione, che spaventa non tanto come un mostro, ma che ci rende il mostro, isolati dalla comunità e perseguitati con torce e forconi. Chi più, chi meno.
Vi lascio con un’amara canzonetta sulla rivendicazione, che io amo molto. In una versione WOW. Niente indie anche stavolta.