I corpi sono campi di battaglia (semi citazione da Barbara Kruger) da sempre, su di essi si gioca l’autodeterminazione per antonomasia. Se affrontiamo il tema dell’autodeterminazione dei popoli non possiamo prescindere dai loro corpi.
Quanti modi ci sono stati e ci sono per ridurre in schiavitù un corpo?
Infibulazione, circoncisione (per motivi culturali e religiosi), negazione dell’aborto o costrizione a esso, castrazione chimica, biancheria intima costringente (cinture di castità, corpetti, reggiseni, pancere), fasciatura dei piedi, allungamento del collo, buchi ed eventuale dilatazione dei lobi delle orecchie, buchi al naso, disco labiale, tatuaggi e via discorrendo.
Ho volutamente menzionato delle pratiche usate tradizionalmente da alcune popolazioni, che in alcuni casi sono state imitate e assimilate da altre culture: su tutte l’uso di orecchini e i tatuaggi.
Certe tradizioni sono la conseguenza di un’imposizione e non sono una giustificazione alla violenza e all’abuso. Se una persona non è libera di poter scegliere cosa fare del proprio corpo e di come mostrarlo, non sarà una persona autodeterminata, ma costretta (la comunità d’origine, il gruppo religioso di appartenenza, la famiglia, varie ed eventuali), anche laddove non c’è violenza apparente. Una persona che si ribella alla tradizione è una persona che sceglie per sé stessa, così come lo è una persona che consapevolmente decide di aderire a quella data tradizione, ma per accettare o rifiutare qualcosa dobbiamo innanzitutto avere libertà e strumenti per elaborare un pensiero critico che ci permetta di esercitare la nostra scelta.
È raro imbattersi in fotografie non modificate, anche impercettibilmente, di persone che mostrano il proprio corpo o che, con la pubblicazione di foto di sé nude, in biancheria intima o costume da bagno, non menzionino qualche particolarità del proprio aspetto, più frequentemente definendola come “difetto”, oppure associando a quell’immagine un contenuto in cui si parla di bellezza, dieta, peso, salute, amor proprio.
Le didascalie diventano richieste di perdono e giustificazioni per il proprio corpo o, all’opposto, la rivendicazione di esso.
Se si parla di corpi il principale parametro per una riflessione più o meno ricercata è la bellezza, un concetto tanto opinabile quanto astratto.
Quando la bellezza non basta si fa ricorso al tema della salute, con la tendenza a medicalizzare chiunque non abbia un corpo conforme allo standard dominante, che nelle nostre società ed epoca corrisponde a quello di uomini e donne bianche, slanciato, magro ai limiti dell’anoressia oppure palestrato, abile, tendenzialmente molto tatuato e impeccabile a livello di stile (qualunque esso sia).
Chi esce fuori dallo standard è innominabile e invisibile o – nel peggiore dei casi – bistrattat* (vi ricorda qualcosa? Già, sono quegli stessi corpi che ci vengono riproposti nel porno mainstream).

Your body is a battleground, Barbara Kruger
Alcune aziende cosmetiche e di moda, che hanno adottato esempi apparentemente non conformi allo standard che esse stesse hanno contribuito a diffondere e capitalizzare, hanno lanciato sul mercato le “taglie forti”, abbigliamento per persone curvy, linee morbide, scelto testimonials e modell* apparentemente divers* dal tipo di riferimento, ma di fatto hanno continuato a usare corpi e volti di persone che di poco si discostano dal suddetto standard, se non in termini di peso, appunto, per altro promuovendo una terminologia discriminante e ambigua.
La persona grassa non viene mai definita apertamente tale, mentre la persona magra* sì. La persona grassa è particolarmente biasimata quando non proprio offesa (sovrappeso, in carne, rotondetta, paffutella, cicciona, obesa anche quando non lo è, palla di lardo per essere citazionista, ecc.). A tale proposito suggerisco di seguire sui social il duo Belle di Faccia costituito da Mara Mibelli e Chiara Meloni, che parlano proprio di body shaming e body positivity cercando di focalizzare l’attenzione sulla dignità di essere di ciascun corpo.
La problematica del come mostrarsi e cosa dire rispetto al corpo è particolarmente diffusa tra le donne. Nonostante il body shaming colpisca anche gli uomini (stigma della calvizie, del peso, dell’altezza, della dimensione del pene) se ne parla meno, perché si espongono raramente per tabù e/o vergogna. Questa tendenza è culturale, figlia di stereotipi sessisti che vogliono la donna barbie e l’uomo macho, con la conseguente discriminazione di tutti i corpi non adeguati a tali modelli e relativi frustrazione e senso di inadeguatezza che ciò implica.
Fino a ora ho affrontato l’argomento tenendomi sul binarismo femminile/maschile e soffermandomi su aspetti puramente estetici, se supero questa dicotomia mi imbatto in una questione decisamente più ampia e complessa che va a intersecarsi con quanto sopra riportato.
Su chi e cosa faranno riferimento le persone intersex, le persone che vorrebbero transizionare e quelle che stanno transizionando e, fra/oltre a queste, quelle che non sono bianche, che non hanno corpi atletici, a cui mancano delle parti (una o entrambe le tette, uno o più arti, persone che hanno cicatrici evidenti, bruciature, macchie sulla pelle, ecc.)?
Ho letto di recente una bellissima intervista che Morena di Le Sex En Rose fece a Max Ulivieri (LoveGiver), il quale condivide la delusione per il fatto che con le persone disabili (NON fra persone disabili, la differenza è fondamentale) si parli esclusivamente di disabilità, sia pubblicamente che nel privato, come se la disabilità escludesse tutto il resto: disabili anziché persone. Questa osservazione mi ha fatto ragionare ulteriormente su come parliamo collettivamente dei nostri corpi.
Le didascalie alle foto che condividiamo sui social sono ridondanti e, seppure comprendo la necessità di dire pubblicamente qualcosa che tutt’ora è tabù – è pur sempre un gesto politico – rischiamo di limitare il discorso e farlo diventare controproducente.
Se sotto una mia foto sottolineo la presenza di cellulite e/o peli, per dire, dò estrema importanza a quella cellulite e/o a quei peli, anche se li uso per costruire uno storytelling positivo. Il parlare addosso al corpo depotenzia la foto in sé, che – per il solo fatto di mettere in mostra quel fisico per intero o parzialmente – ha un senso proprio, che non ha bisogno di essere specificato.
*Le persone magre non sono esenti da critiche e insulti. Se particolarmente magre, sono spesso additate come anoressiche, ma – dato che la nostra Società promuove modelli di magrezza spesso spinta all’estremo – l’attenzione è più sovente posta sulle persone grasse, viste come malate perché – si sa – un corpo sano è un corpo magro (poco importa se quest’ultimo ha i valori del sangue sballati, se è depresso, affaticato, sotto pressione, infelice, ecc. Ciò che conta è l’apparenza).