Un drammatico incipt e un ancor più drammatico excipit. Una escalation tra vecchie moquette, case popolari, servilismo, abuso e legami familiari. La violenza silenziosa si srotola fino a guadagnare il titolo di Miss Violence.
“Miss Violence”, del regista greco Alexandros Avranas, uscito nelle sale nel 2013, è uno dei tanti film della produzione ellenica contemporanea che meritano di essere visti e considerati in quanto capaci (anche) di fornire allo spettatore strumenti adatti a leggere una crisi economica che ha gettato, nel corso degli ultimi 15 anni un intero Paese nella più cupa disperazione sociale. Reperibile sulla piattaforma streaming “Prime” di Amazon, questo film va visto tenendo a mente anche il ritorno in auge di pellicole come “Dogtooth”, di Yorgos Lanthimos, recentemente doppiato in lingua Italiana e proposto nella programmazione delle multisale mainstream, a undici anni dall’uscita in Grecia, a fianco di titoli capaci di richiamare il pubblico pandemico come “Tenet” di Nolan. Una crisi che parla ad un’altra crisi insomma, una metafora della situazione sociale che è scaturita dall’affondo della Grecia dopo il 2008, ma ancora di più una lettura della situazione delle oppresse fra le oppresse.
Durante la festa per il suo undicesimo compleanno Angelike si suicida gettandosi dal balcone dell’appartamento in cui vive con la famiglia. Una storia che parte dalla fine per arrivare all’origine di un gesto che non lascia spazio a ripensamenti e mette chi guarda nella condizione di comprendere, un pezzo alla volta, il dramma di un’esistenza disfunzionale che coinvolge un’intera famiglia in cui non sono solo i legami di sangue a non essere subito chiari: anche le dinamiche di potere ed economiche piano piano si dipanano dando forma a un quadro inquietante.
Una famiglia di donne di età diverse e con diversi ruoli, un solo bambino e un vecchio patriarca dalla dura scorza riproducono nel piccolo di un appartamento fermo al secolo scorso una situazione che ha echi in tutto il mondo: la logica dell’oppressione, in particolar modo quella femminile, che agisce da parte dei pochi sui molti, incapaci di una ribellione sistemica e gravemente puniti nel tentativo di pensiero indipendente.
Pensare una gerarchia come quella che viene proposta da questa storia ha, sulla carta, dell’assurdo: come può un uomo solo, un uomo piccolo, senza qualità, senza lavoro, improduttivo, essere considerato un leader e piegare al suo volere un’intera famiglia, composta non solo da bambini inconsapevoli, ma anche da adulti potenzialmente in grado di cambiare le proprie sorti?
Eppure il microcosmo di “Miss Violence” è solo un presepe, una rappresentazione in scala infinitesimale di quello che viviamo ogni giorno, soggiogati da un potere teorico e improduttivo che, come il più degenere dei padri-padroni, vende i propri figli senza nemmeno aspettare il miglior offerente. La dignità non è una moneta di scambio, lo sono il corpo, l’abilità, la forza lavoro, la produttività: in un paese come la Grecia, in un film come “Miss Violence”, il soggiogamento del più debole porta al suicidio di un undicenne, alla crisi globale di un’intera nazione privata delle propria dignità.
Si coglie un auspicio nella narrazione, ed è quello della rivolta che porta alla riconquista del potere da parte di una fazione sopita, che ha sopportato in silenzio per secoli un ingiusto oscuramento: sono le donne i membri della famiglia su cui il regista fa affidamento per un possibile recupero, per l’azione determinante che silenzia un potere ammutolente, che provano a riprendere il coltello dalla famosa parte del manico. Lascia uno spiraglio aperto alla speranza e alla riflessione, mentre una nuova miss entra nei concorsi: Miss Violence.
Ne approfitto per scusarmi della lunga assenza dovuta, come si dice a scuola, a motivi personali. Vi lascio una canzonetta un po’ da calci nei denti, sperando che vi faccia un pochino arrabbiare.