Car* agitatrici e agitatori pornin*,
torniamo dopo un lungo silenzio proprio oggi, venerdì 13 marzo, in piena pandemia da Covid-19 che, pur sembrando il nome di una navicella spaziale, è invece un virus che sta mettendo KO il nostro Paese.
In questo giorno profetico inauguriamo la nuova rubrica “Sesso da paura“, che sarà curata da Stefania Ratzingeer, docente di italiano e appasionata di cinema.
Buona lettura.
Claudia Ska
Nel saggio “Man, women and chain saw: gender in the modern horror film” pubblicato nel 1994 e ancora attualissimo, Carol J. Clover – studiosa e docente di cinema americano all’Università di Berkley, in California – associa per la prima volta in ambito accademico il genere horror alla pornografia, definendoli entrambi come creati al fine di risvegliare determinate sensazioni nell’animo – e nel corpo – umano. Clover sostenne che «la pornografia e l’horror esistono per eccitare e spaventare, non sempre rispettivamente, e la loro abilità di provocare una di queste due sensazioni è la chiave del loro successo: si testano sulle nostre pulsioni». Si risale alle pulsioni di sessualità e morte (eros e thanatos), i due principali moti dell’animo umano, che si incontrano in due generi cinematografici all’apparenza diversi ma che, a uno sguardo attento, hanno davvero tanto in comune.
La fascinazione che il cinema horror provoca sulle nostri menti è simile a quella della pornografia e parte dal concetto di arousal, ovvero di uno stato di eccitazione indotto attraverso la stimolazione del sistema nervoso centrale, proponendo immagini e situazioni che vanno a operare su concetti archetipici, paure e fantasie che fanno parte del nostro bagaglio umano, che sospinte dai più bassi dei nostri istinti: quello di riprodurci e quello di sopravvivere.
Il cinema horror si fa portatore di tematiche legate alla sua contemporaneità in modi più o meno espliciti: dai grandi autori (Scott e Carpenter) agli autori meno noti ma degni di nota (Bava, per esempio), non sono poche le figure che si ripetono nella narrazione e si pongono in modo critico verso l’assetto sociale della loro epoca.
In quest’ottica non si può ignorare l’importanza che hanno assunto i ruoli di genere all’interno della storia del cinema horror: è una storia lunga, che vi racconterò in più puntate, recensendo di volta in volta film horror più o meno recenti che, secondo la mia opinione di appassionata di horror e porno, possono offrire un punto di riferimento nell’enorme mare delle riflessioni sulle tematiche di genere.
Iniziamo dalle basi: la FINAL GIRL.
Le Final Girl sono le protagoniste che, nel genere horror, risolvono la situazione, facendo fuori il mostro, imprigionando le forze del male, partendo (ma non sempre riscattandosi) da una situazione iniziale in cui compaiono come fragili babysitter, fidanzatine timorose, amiche in campeggio dedite alla decorazione delle unghie: le Final Girl si trasformano in assassine più o meno improvvisate, pronte a tutto per portare a casa la pelle e rimanere le uniche persone che potranno raccontare la storia. Il termine Final Girl, comparso per la prima volta nel suddetto saggio di Clover, identifica non solo un personaggio, ma una vera e propria impersonificazione sociale: all’inizio lo spettatore sembra immedesimarsi con il mostro ma, più la trama si snoda, più l’identificazione avviene con il ruolo della final girl, rimasta viva, e frequentemente traumatizzata, da un’esperienza terrificante.
La figura delle final girl è cambiata molto nel corso dei decenni: inzialmente veniva proposta l’immagine di una donna in difficoltà soccorsa da una controparte maschile, si è poi arrivati alla donna che da sola riesce a risolvere la situazione. Non si è trattato di un passaggio netto, bensì di un percorso caratterizzato dalle diverse sfumature delle protagoniste tra cui ricordiamo, per citarne alcuni esempi, la ragazza che resta catatonica – salva per miracolo – e quella che si salva per poter essere testimone e perire – o essere ricoverata in un istituto psichiatrico – in un secondo momento (magari in un seguito della pellicola), come accadde alla povera Alice Hardy che miracolosamente sopravvisse in “Friday the 13th” (1980) per poi soccombere all’inizio del sequel, “Friday the 13th part 2” (1982).
Fino alla metà degli anni ’90 le caratteristiche che hanno accomunato le Finals si sono più o meno ripetute nel cinema horror mainstream: Clover le identifica come ragazze verginali, sessualmente non disponibili, che evitano e biasimano i comportamenti “moralmente scorretti” delle altre vittime (abuso di alcol, uso di droghe illegali, sesso occasionale); rispetto agli altri personaggi principali le Finals si distinguono per la loro intelligenza e perspicacia, sono spesso le prime della classe, ma non sono mai particolarmente attraenti: la bellezza, o meglio l’avvenenza, non si confà a queste sopravvissute nella tragedia dell’orrore. Infatti nell’horror la sensualità è sinonimo di una sicura brutta fine, dovuta per lo più alla mancanza di arguzia. Questa visione del ruolo della “classica bionda” sembra lontana anni luce a pensarci ora, invece è, ahimè, molto più vicina di quanto si creda (per citare un caso recente, riporto alla memoria un meme che invita le donne a essere più Marie Curie che Kim Kardashian).
Secondo questa prospettiva le Finals non entrano mai nelle scene di “death by sex”, molto in voga nell’horror degli anni ’80, in cui i personaggi muoiono durante un rapporto sessuale, mentre si appartano nel tentativo di, o immediatamente dopo il coito. In parole povere, sembra che a salvarsi debbano essere solo “le ragazze pure di cuore”, o quantomeno che non scopano.
In epoca più recente, circa dalla seconda metà degli anni ’90, si è assistito a un fenomeno che è assimilabile a una sorta di riabilitazione delle Finals che, come nel caso della vampire slayer Buffy Summers, sembrano aver guadagnato il diritto a essere contemporaneamente sexy, bionde, cheerleader, capaci di avere rapporti sessuali e, ciò nonostante, ammazzare pericolosi vampiri! Un altro caso emblematico è stato quello del personaggio di Sidney Prescott, protagonista della serie di film “Scream”, che riesce a fare sesso e anche a sopravvivere!
Alcuni appassionati potrebbero farmi notare che persino la meravigliosa Ellen Ripley, in una delle mie saghe preferite, ovvero “Alien”, fu capace di grandi imprese nello spazio, dove «nessuno poteva sentirla urlare» (cit.) ma ne fu capace solo nelle vesti androgine, richiamando una vicinanza al modello di donna intelligente e mascolina.
Il meccanismo azionato in casi come quello di Ellen Ripley, magistralmente interpretata da Sigourney Waever, vede come più realistica l’ipotesi di una donna che, in preda a un terrore sordo e totalizzante, impugna un’arma (fallica) e uccide il nemico, rispetto all’idea che un uomo possa trovarsi nella medesima condizione di paura: è più semplice pensare che sia una donna a provare questo genere di sensazioni, gli uomini preferiscono morire piuttosto che perdere il controllo. O tenerlo del tutto.
L’inversione di rotta esiste e continua in modo inesorabile: in questo primo ventennio degli anni 2000 abbiamo assistito a un’evoluzione incredibile delle Finals: un’evoluzione così importante che forse non ci permette più di chiamare queste protagoniste “finali” ma ci porta a considerarle “narranti”, perché continuano la storia, aprono scenari, non sono più meramente destinate al compiersi di qualcosa più grande della loro volontà: in alcuni casi sono vittime che si salvano, in altri casi diventano loro stesse aguzzine.
Vi aspetto alla prossima, con una bella storia che finisce DAVVERO molto male! 😉