Sesso da paura – Il gineceo che uccide

Cari amici e amiche del porno che fa orrore e dell’orrore che fa porno, per inaugurare la nostra rubrichetta di cinema horror e genere manipolato – potete trovare il primo articolo introduttivo qui – ho scelto un film che ci porta in una versione rivisitata del Festival dei Fiori, per un meraviglioso incubo di mezza estate.

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“Midsommar”, Ari Aster, 2019

“Midosmmar” è uno degli horror che nel 2019 ha fatto più parlare di sé: fuori da molti dei cliché del genere, porta l’orrore alla luce del sole (come promette la locandina), in un’ambientazione amena, in cui i personaggi sembrano apparizioni divine e leggere, danzatori matissiani con abiti bianchi, immersi in una vegetazione lussureggiante e fiorita, dove la ritualità pagana mostra i suoi aspetti più terribili e la morte diventa (o meglio torna a essere) la più acclamata e assetata di tutte le divinità.

Ari Aster, regista, sceneggiatore e scrittore statunitense, ha presentato nel Luglio del 2019 il suo secondo lungometraggio, Midsommar.  Non nuovo a tematiche che riguardano la capacità delle donne di scatenare un vero e proprio pandemonio sistematico, regolato da norme e tradizioni, per niente casuale ed emotivo, aveva già dato prova di grande abilità con il suo primo film, “Hereditary”.

Midsommar è stato definito dallo stesso regista “un breakup movie (film su una coppia che si sta lasciando, nda) travestito da pellicola folk horror“: la storia, infatti, è quella di una rottura in cui il rancore, come in molte rotture, gioca un ruolo fondamentale.
Prologo: Dani è fidanzata con Christian, studente di antropologia; la loro relazione è in crisi, lui sta cercando di chiudere, supportato dallo spirito cameratesco degli amici, ma non ne ha il coraggio, trattenuto dalla fragilità di lei, che nonostante cerchi con forza di mantenersi indipendente, cade in una spirale relazionale di stretta co-dipendenza.
Il suicidio-omicidio della sorella di Dani, che avvelena sé stessa e i genitori con il monossido di carbonio, dà il colpo di grazia alla già precaria stabilità emotiva della ragazza, e Christian, mosso a pietà verso la fidanzata psicologicamente devastata, la invita malvolentieri a partecipare a un viaggio in Svezia, organizzato insieme agli amici Mark e Josh, invitati dal collega svedese Pelle, presso la comune di Hårga per poter assistere ai riti pagani che si compiono nel villaggio ogni 90 anni, durante i festeggiamenti del tradizionale Midsommar, ovvero il solstizio d’estate.

Il villaggio di Hårga si presenta subito al gruppo di viaggiatori come una sorta di giardino dell’Eden: il sole non tramonta mai, i prati sono verdi e fioriti, le ragazze giovani e disinibite. Le droghe psicotrope (funghi, infusi di erbe, decotti) sono uno dei punti cardine della celebrazione, che conducono i partecipanti in un viaggio mistico, un rito dopo l’altro, guidati da una sciamana, la massima autorità della comune.
La società di Hårga non è matriarcale, ma ne è subito chiaro l’assetto improntato sulla forza femminile: all’interno della comunità non esistono coppie, le donne scelgono il loro partner con la finalità di accoppiarsi e riprodursi, il sesso è esso stesso un rito comunitario e i figli non appartengono a chi li ha generati, ma sono considerati di tutti. Quando una donna sceglie il suo partner sessuale, rende le sue intenzioni chiare tramite un rituale in cui nasconde dei fiori sotto il suo letto, cucina per lui i propri peli pubici e versa nel suo bicchiere il proprio sangue mestruale.

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“Midsommar”, Ari Aster, 2019

Lo sguardo di Dani è apertura e chiusura del film: apprensivo in apertura, caratterizza le prime battute della storia, durante le quali la protagonista discende verso il dolore, diventa un’Ofelia abbandonata, sola al mondo e senza più radici, che cerca di radicare sé stessa in una relazione  con un uomo che pare egli stesso un’inezia adolescenziale, così superficiale da stridere con la tragica profondità del presente. Un sorriso sereno, una soddisfazione guadagnata, una catarsi conclusa, chiudono invece la pellicola. L’hybris di questa vicenda non è la drammatica morte della famiglia di Dani, bensì la rottura che non avviene, la gentilezza ostentata e quasi costretta verso chi non le riserva nessuna cortesia – il fidanzato e gli amici, a eccezione di Pelle – quasi nemmeno nello sforzo di fingere di accettare la sua presenza: la spinta tragica di questa storia è la pietà e la rivolta a essa, il rancore per l’umiliazione subita. Il riscatto avviene tramite l’accettazione, l’aiuto e l’unione.

Nella realtà quotidiana dei protagonisti la figura maschile è quella di riferimento, è quella che con forza e cieca ottusità tiene le redini, decide le mosse. Nella realtà di Hårga invece, Dani, inizialmente abbandonata e confusa, viene accolta, diventa parte della comunità, indossa il tradizionale abito bianco della celebrazione del Midosmmar e, dopo aver assistito ai rituali di morte degli anziani della  comune, viene incoronata Regina del Maggio, vincendo un’estenuante gara di ballo: tra il pubblico Christian, vestito con i propri quotidiani abiti scuri, crea un contrasto con il candore degli altri spettatori, è escluso, mentre attende in preda a un angosciante stato allucinatorio di conoscere il suo destino, di cui non è più padrone, e che ora è nelle mani della fidanzata, incoronata e vestita di fiori.

L’apice della catarsi della sofferenza della protagonista si consuma con le compagne della comune, che la sostengono e che, empatizzando con il suo dolore, lo piangono insieme a lei in una scena di forte impatto: Dani, dopo una serie di vicende che acquisiscono sempre più importanza, abbandona finalmente le redini della razionalità e il suo dolore, soffocante e teatrale, diventa un urlo crescente, prima individuale e poi comunitario, in un cerchio di sostegno e condivisione, che raggiunge il vertice della disperazione e insieme della rinascita.

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“Midsommar”, Ari Aster, 2019

L’epilogo narrativo fa letteralmente rifiorire il personaggio femminile dalle proprie ceneri, non senza difficoltà: Dani mantiene la fragilità umana che l’aveva caratterizzata all’inizio della storia. Il suo ruolo decisionale non è semplice, quasi soffocata, appesantita nei movimenti sembra essere legata. Non riesce con facilità a liberarsi dalla débâcle interiore che la tiene ancorata a un passato tragico, a eventi e situazioni che, arrivati a questo punto della storia, sembrano minuscoli e privi di importanza, all’interno di una vicenda che ha davanti a sé un lungo divenire narrativo. L’epifania, o meglio l’ascesi, avviene in un preciso momento: quando si libera dal terrore e dal peso enorme che ha portato con sé – e che ha condiviso con lo spettatore – e il suo viso, prima doloroso in una smorfia angosciante, si distende incorniciato dai fiori, dal verde e dalle urla della comune che ne simboleggia la rinascita sociale.

Stefania Ratzingeer

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