agit-porn inaugura una nuova rubrica intitolata “Interviste Ribelli”, nella quale ci confrontiamo con persone che secondo noi vivono e comunicano in modo dissidente e resiliente.
Rachele Borghi:
dalla geografia dei luoghi alla geografia dei corpi
Rachele Borghi è geografa e attivista queer, docente universitaria e autrice – fra gli altri – del saggio “Il re nudo. Per un archivio drag king in Italia” (ETS).
L’ho conosciuta al Lesbiche Fuori Salone nel 2015, quando tenne insieme a Slavina il laboratorio “Lez talk about sex” al quale partecipai.
L’avevo sentita nominare e mi affascinava il fatto che una docente, figura alla quale attribuiamo un’autorevolezza seriosa, monolitica, potesse fare attivismo in modo provocatorio e ironico, spogliandosi (letteralmente) in pubblico.
Cara Rachele, innanzitutto grazie per la tua disponibilità. Salto i convenevoli e passo al sodo: come ti sei avvicinata al post-porno?
Era il 2010, ero da poco arrivata a Roma e mi ero iscritta alla newsletter della Casa Internazionale delle Donne. Apro la posta e leggo che ci sarà la proiezione del documentario “Mi sexualidad es una creation artistica” di Lucia Egana Roja, il cui tema è la scena post-porno di Barcellona. Avevo precedentemente sentito parlare di post-porno dal collettivo Le Acrobate, anche se non avevo ancora capito bene cosa fosse. La loro presentazione però mi aveva intrigata molto, così quella proiezione è stata l’occasione per colmare la mia curiosità.
Arrivo nella sala Carla Lonzi della Casa Internazionale delle Donne, mi siedo, le luci si spengono, la proiezione comincia. Resto incantata. Vedo masturbazioni nel giardino dell’Università di Valencia, penetrazioni sulle Ramblas, corpi dissidenti e mostruosi che invadono lo spazio pubblico. Mi rendo conto che avevo trovato ciò che cercavo: la concretizzazione materiale, la traduzione corporea delle teorie queer. Nonostante il mio cappottino alla Audrey Hepburn in “Colazione da Tiffany” e i miei stivali col tacco mi mettessero fortemente a disagio davanti a quei corpi rrriot, dissidenti, forti, ribelli, la scintilla dentro di me era già diventata un fuoco, quindi prendo la parola e faccio una domanda: chiedo a Kyrahm e Julius (Kaiser, ndr), che organizzavano l’evento, se potevo raggiungere il gruppo in qualche momento e fare delle interviste. Alla sera sono andata da sola alla serata di performance di “Extreme Gender Art”, vincendo anche qui l’imbarazzo di essere sola e l’aria da sfigata. Ma quello che vedevo mi trasmetteva una forza e un entusiasmo che non avevo mai provato. Era in quella direzione che volevo fare ricerca. Dalla ricerca “scientifica” in due anni ho cominciato a fare performance, per la prima volta nella mia vita. Sono stati l’amore e il contagio che mi hanno permesso di sviluppare ciò che era nato.
Non so se il duo Zarra Bonheur che hai fondato con Slavina sia ancora vivo e lotti insieme a noi, ma mi diresti come e perché è nato?
Zarra Bonheur nasce nel 2012 o 2013, non ricordo, perché avevo cominciato a fare performance nel 2012 e mi piaceva l’idea di darmi un nome. Mi sembrava molto “trasgressivo”, visto che non ero un’artista ma una ricercatrice. È stata Diana (Torres, ndr) a farmi l’iniziazione alla Lady fest di Rennes nel 2012, ma la prima volta che sono salita sul palco e mi sono messa nuda è stato con Slavina, durante il Queer your self party a Roma, alla Casa Internazionale delle Donne.
Zarra Bonheur traduce le ricerche scientifiche in performance al fine di superare i limiti che separano i contesti (scientifico/militante), i saperi (cultura alta/cultura bassa, sapere scientifico legittimo/sapere militante), gli spazi (aula universitaria/centro sociale/scena teatrale), le espressioni (conferenza/performance) e di creare spazi interstiziali di sovversione/trasgressione delle norme. In “Porno trash” e “degen(d)ereted euphoria” le mie ricerche scientifiche sul rapporto tra corpi e spazio e sulla rappresentazione/percezione della nudità nello spazio pubblico sono trasformate in performance in cui il sapere scientifico prende corpo. Zarra Bonheur da (il) corpo alle ricerche, porta il corpo là dove non lo si attende, libera le riflessioni dalle pagine delle riviste scientifiche, esce dall’autorialità e contamina gli spazi. Nel 2014 Slavina, con cui avevo sviluppato un rapporto intenso di amicizia e di lavoro, mi propone di rendere Zarra Bonheur un collettivo. Grande entusiasmo da parte mia. Zarra Bonheur è oggi un progetto comune di dissidenza, di resistenza, di sperimentazione e di pornoattivismo/pornoaccademismo. Zarra Bonheur è anche la sperimentazione di un’alleanza, quella tra ricercatora (io) e soggetto della ricerca (Slavina).
«Zarra Bonheur è un progetto collettivo transnazionale a geometria variabile di ricerca e performance su genere, spazio pubblico e sessualitá dissidenti.
[…] il progetto unisce arte e attivismo inserendo le sue azioni nei contesti locali, coinvolgendo collettivi e singolarità, creando collaborazioni stabili ed effimere. Zarra ama il formato laboratorio come forma di arte partecipativa. La condivisione della scena come forma di impoteramento programmatica: Zarra Bonheur ha molte voci e molti corpi.
Siamo tutte Zarra Bonheur».
Abbiamo creato una piattaforma di scambio e di contaminazione, di creazione partendo da supporti diversi, dalla conferenza alla performance, passando per laboratori e conferenze performative e diversi contesti. Zarra Bonheur è un esercizio spurio di contaminazione di luoghi e persone, di trasmissione di competenze, di autoformazione, uno spazio orizzontale che cerca di “socializzare saperi senza fondare poteri” (Primo Moroni; cit. in Slavina).
Il lavoro di Zarra Bonheur si realizza in diversi contesti (militanti, associativi, istituzionali). È in questo senso una sperimentazione di traduzione della ricerca scientifica per renderla accessibile, toglierle il suo carattere d’élite e liberare i testi dalle prigioni delle riviste scientifiche. Allo stesso tempo è la traduzione dei saperi e delle pratiche militanti e dell’educazione popolare nell’insegnamento istituzionale.
L’ultimo intervento che abbiamo fatto come collettivo è stato a luglio nell’ambito del Festival d’Avignone, dove abbiamo fatto una conferenza performativa sul drag king.
Mi fa piacere che tu abbia nominato il drag king, dato che anche io l’ho sperimentato e vorrei continuare. Secondo te perché il drag king è ancora sottostimato o almeno a basso profilo rispetto al corrispettivo drag queen?
Drag Queen e Drag King hanno storie, traiettorie, modalità, motivazioni, declinazioni diverse. Non sono sicura che il paragone che si continua a fare sia davvero pertinente. Anche se il dk nasce come subcultura lesbica nei bar negli Stati Uniti, scende subito dal palco, investendo lo spazio pubblico e diventando uno strumento di dissidenza. A ogni modo secondo me bisogna non dimenticare che dk è una performance della maschilità, che permette di riflettere sulle costruzioni di genere, a prescindere dall’assegnazione di genere del corpo di partenza. Inoltre nel dk, così come è declinato nel contesto transfemminista, è fondamentale il momento laboratoriale come spazio di apprendimento ma anche e soprattutto di scambio e di creazione di relazioni. Questo tema è oggi al centro della ricerca di Clark Pignedoli che fa una tesi di dottorato a Montreal proprio sul tema dei laboratori drag king portando l’attenzione sul ruolo del privilegio cisgenere e sull’approccio delle persone trans.
Cos’è per te l’oscenità? Può assumere connotati positivi o negativi a seconda del contesto?
Per me osceni sono i reality show come il voyeurismo dei social network e soprattutto di Facebook. Non capisco come si possa qualificare corpi e immagini sessuali come oscene mentre sembra normale mettere in scena la propria vita, spogliarsi di ogni inibizione, rompere qualsiasi tabù, mettersi completamente a nudo sui social network. In una conferenza performativa che sto facendo da un po’, “Elogio del margine”, cerco di ribaltare l’idea di osceno attraverso un percorso che faccio col pubblico. Se all’inizio può essere considerato osceno che una professora della Sorbona si metta nuda a metà conferenza, poco dopo questa percezione viene ribaltata quando una voce off legge una serie di commenti che il mio lavoro ha suscitato in molti contesti. Spesso sento le persone del pubblico sussurrare “ma è osceno quello che dicono!”, ahahahaha! Infatti non faccio trigger warning per la mia nudità ma per questa parte e funziona molto bene.
Mi piace molto la riappropriazione del termine osceno e la sua declinazione in uso nel post-porno e nel trasfemminismo e soprattutto come lo usa Slavina, che ne ha esplicitato il valore politico nel titolo di uno dei suoi laboratori: “Poetiche e politiche dell’osceno”.
Da geografa, sapresti dirmi qual è secondo te lo spazio dell’osceno nella nostra Società e perché?
Come ti dicevo prima per me “osceno”, come viene inteso comunemente, è tutto il mondo dei reality e di Facebook, come anche il voyeurismo morboso verso fatti di cronaca. Credo poi che ci sia un’abitudine all’osceno nello spazio pubblico nel momento in cui non ci si indigna più verso la povertà, la violenza, l’esclusione delle persone*. Credo che oscena sia anche l’abitudine a sfruttare e a uccidere animali non umani. Spazi osceni sono i mattatoi, gli allevamenti, le riserve di caccia, i negozi di animali, le tavole imbandite con la sofferenza.
Lo spazio per l’osceno, invece, nella sua valenza ribelle e di dissidenza che il transfemminismo gli ha dato, è secondo me tutto da costruire. Credo che lo spazio dell’osceno, di questo osceno, non ci sia. Per questo bisogna prenderselo, perché lo spazio non si chiede, si strappa!
Cos’è per te il femminismo?
È per me un impegno costante, continuo, vitale per la giustizia sociale in maniera trasversale, attraverso una non gerarchizzazione delle lotte ma una interconnessione. È un’attenzione continua alla cura di sé e delle altre persone, umane e non umane**. È cercare di cambiare il mondo attraverso le micropolitiche del quotidiano. Significa per me riflettere sempre sui propri privilegi, su come mobilitarli e come uscire dalla propria zona di confort, creando alleanze ma soprattutto complicità trasformatrici. Il femminismo che mi corrisponde è il transfemminismo, un femminismo ribelle, che non si interessa all’integrazione, trasversale alle cause, che crea degli spazi di contatto, di contaminazione, di relazioni e di bienveillance.
Che tipo di pornografia ti piace guardare, leggere?
Soprattutto durante le mie ricerche sul post-porno ho guardato molti video, specialmente di porno queer. Quelli che mi piacevano di più erano quelli con corpi butch BDSM. Guardavo però un po’ di tutto quello che la mia amica Dirty mi passava, era lei la mia spacciatrici principale di porno lesbico e queer quando ero a Rennes. Mi ricordo che quando guardavo i video per le mie ricerche mi piaceva l’idea di masturbarmi lavorando.
Cosa pensi della pornografia mainstream?
Per quanto mi riguarda, tutto si riassume nella frase di Annie Sprinkle che dice che se non ti piace la pornografia esistente fattela tu come ti piace. E infatti il femminismo (pro sex) ha risposto con una produzione fantasiosa, creativa, bella, eccitante, dissidente di porno queer, femminista, post-porno, ecc.
Per me il problema principale della pornografia mainstream è lo sfruttamento delle persone, le paghe non adeguate e i rapporti di dominazione. Ma questo vale per tutte le industrie e i lavori.
Ritieni che la pornografia sia un mezzo espressivo per emanciparsi?
Si, certo, può essere una pista che permette di toccare certe parti di sé, scoprire e restare in contatto con i propri desideri e con le proprie perversioni. È però per me necessario potersi confrontare e riflettere con altre persone. Secondo me la pornografia, come qualsiasi altro strumento, permette l’emancipazione (se così vogliamo chiamarla, anche se sono sempre perplessa sull’uso di questo termine) quando diventa uno strumento di riflessione collettiva. È il processo di rendere collettivo qualcosa che è considerato privato che è vettore di cambiamento, di sé e del mondo. Primo perché, come per tutto, collettivo è meglio che individuale; secondo perché rompe il binomio pubblico/privato che è uno dei binomi che ci ha più fregato. È la dimensione collettiva che rende, a mio avviso, la pornografia politica.
Hai dei progetti ai quali stai lavorando e di cui vuoi e puoi dirci qualcosa?
Sto lavorando sul mio corpo malato, sto raccogliendo tutti gli esami, le visite mediche, le immagini e vorrei fare una performance in cui vorrei portare a riflettere proprio sull’osceno. È più osceno il mio corpo nudo o il fatto di mostrare il “dentro” del mio corpo?
Sto poi lavorando a un libro sulla violenza istituzionale e sulle risposte a essa a partire dalla mia esperienza alla Sorbona, in cui rivedo il mio percorso e lo proietto nel futuro attraverso l’approccio decoloniale. A questo si affiancano piccoli progetti con alcune colleghe/compagne francesi. Abbiamo creato la brigata SCRUM (Streghe per un Cambiamento Radicale dell’Università Merdosa) con cui stiamo facendo un manualetto di autodifesa epistemologica e con le persone studenti podcast di articoli scientifici, la pubblicazione della traduzione in fumetti sempre di articoli scientifici realizzati negli anni scorsi, il tutto al fine di riflettere sul valore politico di “farsi capire” e sull’uscita dai codici convenzionali nei contesti. Poi vorrei dedicarmi, magari tra un po’, a cercare di realizzare libri femministi intersezionali per bambini/e, a partire dalle storie che invento per mio nipote di 4 anni e dai lavoretti che faccio per lui. Ho fatto “la storia del pesce Angela Davis” sulle frontiere e il diritto di muoversi, “Le avventure della cavalla Rosa Parks” sui movimenti sociali e ora sto facendo “Nel vecchio santuario” sulle persone umane e non umane** che vivono nel santuario/rifugio antispecista del Vernou in Francia.
Spero che l’intervista abbia dato stimoli e spunti di riflessione, inoltre credo che le citazioni di Rachele siano un ottimo modo per conoscere persone e approfondire tematiche circa gli argomenti trattati.
* a tale proposito vi suggerisco l’articolo di Fabio Bertoni e Jessica Neri “Oscenità e corpi – Processi di normalizzazione e resistenza in soggetti richiedenti elemosina“.
** la prospettiva antispecista rifiuta la distinzione “persone” e “animali” preferendo utilizzare l’espressione persone umane e non umane.